Annamaria Venere

La detenzione rappresenta, per qualsiasi persona ne venga coinvolta, un evento traumatico, al di là della meritevolezza o meno della pena subita. Questo perché il detenuto, al momento dell’ingresso in carcere, deve per forza di cose abbandonare la quotidianità, il lavoro e le relazioni sociali fino ad allora vissute. La detenzione, però, non comporta un alienamento soltanto dal mondo esterno, ma anche da tutto ciò che ha a che fare con la sfera affettiva, dalle relazioni familiari a quelle sessuali e sentimentali (Ceraudo, 1999).

Poiché, dunque, l’affettività rappresenta un fattore determinante per il benessere psicologico e la riabilitazione dei detenuti, la privazione e la mancanza di contatti con la famiglia o gli amici possono avere un impatto negativo sulla salute mentale e sulla capacità di adattamento a un ambiente spesso ostile e isolante (Maslow, 1997). In Italia, in particolare, la realtà carceraria, nella maggior parte dei casi, è caratterizzata da sovraffollamento, condizioni di vita precarie e una carenza di programmi riabilitativi e di supporto psicologico: questo rende ancora più cruciale l’attenzione alle tematiche affettive e relazionali, al fine di integrarle nel processo di detenzione e riabilitazione del detenuto. Ciò però si scontra con criteri normativi e applicativi spesso di difficile coniugazione con le necessità psicosociali (Manca, 2019).

La dimensione affettiva: legalità costituzionali e difficoltà applicative In base agli artt. 2, 3, 25 e 27 della Costituzione, lo Stato ha il dovere di “assicurare la dignità della persona” anche all’interno dell’istituzione carceraria. Per tale motivo, se con “affetto” intendiamo l’insieme delle componenti relazionali, familiari e sessuali, ne deriva che la tutela della dimensione affettiva è parte integrante della dignità umana (Manca, 2019). Se da un lato, però, tale dimensione è rimarcata all’interno dell’ordinamento penitenziario, ci sono degli ostacoli che impediscono, specie nel contesto italiano, una completa fruizione della sfera affettiva da parte del detenuto, tanto da farne per molti un problema di legalità costituzionale.

Ne emergerebbero, infatti, i presupposti di violazione del principio di legalità delle pene (art. 25 Cost.), della libertà di disporre il proprio corpo (art. 13 Cost.), della violazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.) e, per l’appunto, della dignità personale (art. 2 Cost.) (Purgiotto, 2019). In realtà, integrare la dimensione affettiva, nei canoni sopra espressi, all’interno del carcere non è semplice, sia per la difficile situazione delle carceri italiane, che spesso non permettono la fruizione di adeguati programmi di riabilitazione sociale, che in relazione ad alcuni regimi di detenzione.

Per fare un esempio, si pensi al 41-bis: appare chiaro che in determinate situazioni, la capacità di includere la dimensione affettiva si scontra con con difficoltà oggettive dovute all’isolamento del detenuto (Nestola, 2019). Eppure, le conseguenze, almeno sotto il profilo sociale e psicologico, e quindi non giuridico, sono rilevanti, come dimostrato da numerose ricerche (Maslow, 1947). Effetti negativi della privazione affettiva La privazione delle relazioni affettive nei detenuti (intese sia quelle familiari che quelle sessuali) può essere causa di una serie di difficoltà, tra cui la limitazione degli spazi e delle opportunità di socializzazione, la stigmatizzazione sociale e la solitudine. Ciò induce a una riduzione della qualità della vita e a un aumento dei disturbi psicologici, come ansia, depressione e alterazioni in un contesto già molto instabile e caratterizzato da estraniazione e distacco. In Italia, la situazione è particolarmente critica a causa del sovraffollamento delle carceri, che limita ancora di più gli spazi di socializzazione e di svago, ma anche di intimità sessuale, nonché per programmi di recupero spesso deficitari sotto il profilo dell’efficienza psicosociale (Ceraudo, 1999).

carcereGli effetti della privazione affettiva nei detenuti sono stati affrontati da più autori, come ad esempio Clemmer (1941), che ha individuato tre livelli generali di adeguamento: il livello normale, il quasi-normale e l’anormale. Il livello normale riunisce gli individui che hanno avuto uno sviluppo normale della sfera amorosa e che, una volta inseriti all’interno del carcere, risentono maggiormente della privazione cui sono sottomessi. Per questo, in loro, fa spesso largo un senso di solitudine diffuso che porta a problematiche relazionali. Il quasi-normale e l’anormale, invece, rappresentano quei gruppi di detenuti che hanno pochi o nessuna relazione significativa presente all’esterno del carcere e, pertanto, hanno più capacità di adattarsi, rispetto ai primi, al nuovo contesto di detenzione. In estrema sintesi, tra gli effetti dovuti alla privazione della dimensione affettiva ritroviamo senso di solitudine, accresciuta asocialità, disturbi sessuali, regressione infantile e adolescenziale, nonché presenza di problematiche relazionali.

Per quanto riguarda le famiglie, ad esempio, le modalità con cui esse reagiscono all’arresto di un familiare dipendono essenzialmente da tre componenti: la situazione o l’evento in sé; le risorse della famiglia, la struttura e la flessibilità rispetto ai ruoli; la definizione che la famiglia dà all’evento, se lo ritengono una minaccia o meno per i loro status sociale e i loro obiettivi. Dal momento della detenzione, in altre parole, sia nel detenuto che nei familiari si innesca un processo di riadattamento dei ruoli. Da un lato, questo porta il detenuto ad adattarsi all’esperienza carceraria, dall’altro la famiglia a una redistribuzione dei compiti che, spesso, tendono a escludere lo stesso detenuto, il quale, a sua volta, espiata la pena, avrà considerevole difficoltà per reinserirsi all’interno di quel contesto familiare e sociale di cui faceva parte (Hill, 1949).

Quali possibili miglioramenti? Per affrontare queste difficoltà, riferendoci al contesto italiano, è importante che le istituzioni carcerarie adottino politiche e programmi che favoriscano lo sviluppo e il mantenimento delle relazioni affettive durante il periodo di detenzione. Ad esempio, la promozione di incontri regolari con i familiari, l’organizzazione di attività che favoriscano la socializzazione tra i detenuti, la possibilità di condividere spazi comuni, come biblioteche o palestre e l’offerta di servizi di sostegno psicologico. Tale miglioramento si può ottenere, tuttavia, soltanto con una globale riforma del sistema penitenziario, ancora lontana dal realizzarsi. In Italia, d’altronde, la situazione è carente e la mancanza di programmi a sostegno dell’affettività rappresenta una sfida importante da affrontare, magari implementando i parametri di socializzazione da un lato e, dall’altro, migliorando la privacy dei detenuti per quanto riguarda la componente sessuale (Manca, 2019).

La promozione dell’affettività, in definitiva, può contribuire non solo a migliorare la qualità della vita dei detenuti, ma anche a supportare il loro percorso di riabilitazione e reinserimento nella società e nella propria famiglia, per ritrovarle, magari, come le avevano lasciate prima di entrare in carcere.


Bibliografia

Ceraudo, F. (1999). La sessualità in carcere: aspetti psicologici, comportamentali ed ambientali, in Sofri, A., Ceraudo, F., Ferri battuti, Archimedia, Pisa. Clemmer, D. (1941).

The prison community, The Christopher Publishing House, Boston. Hill, R. (1949).

Families Under Stress, Harper Bros, New York. Manca, V. (2019). Perché occuparsi della questione “affettività” in carcere?,Giurisprudenza Penale, 2, 7-12.

Maslow, A.H. (1947). Deprivation, Threat, and Frustration, in Newcomble, T.M., Hartley, E.L., Reading in Social Psychology, Henry Holt & Co., New York, 1997. Nestola, M. (2019).

Il diritto all’affettività per i detenuti al 41-bis, Giurisprudenza Penale, 2, 159-182. Purgiotto, A. (2019).

La castrazione di un diritto. La negazione della sessualità in carcere come problema di legalità costituzionale, Giurisprudenza Penale, 2, 15-45.